Carissime
amiche eccoci ad un nuovo appuntamento con “Le nuove penne”. Oggi devo
ammettere di trovarmi in difficoltà, perché il racconto che vado a presentarvi
è stato scritto da mio padre, Marco Bertoli. ;)
Molte
di voi penso sappiano che ha da poco pubblicato un romanzo giallo, genere che
adora leggere e che predilige scrivere. Questa volta però ha voluto cimentarsi
nel romance, non tralasciando comunque il suo stile ricercato e la sua passione
per la storia.
Il
protagonista della storia è Gustave Monet, un sergente di fanteria impegnato in
battaglia. Si trova a un passo dalla morte e gli viene spontaneo ripensare ad
uno dei momenti più belli della sua vita: quello in cui ha conosciuto il suo
grande amore, Charlotte.
Riuscirà
il sergente a rivedere il volto della sua amata e a ricongiungersi con lei? O
dovrà accettare il fatto che la sua ora sia ormai giunta?
Non
vi resta altro che scoprirlo leggendo il racconto..;) Non vi dimenticate di
lasciare il vostro commento!;)
Mi
permetto inoltre, sperando che non vi dispiaccia, di segnalarvi la pagina
facebook dell’autore, dove potrete trovare continui aggiornamenti sui suoi
lavori: LINK
SereJane
Vi ricordo inoltre che noi bloggerine
siamo sempre alla caccia di nuove scrittrici in erba, quindi penna alla mano!!
Non abbiate timore e inviateci i vostri raccontini! Siamo sempre felicissime di
leggerli e di poterli condividere con le nostre amiche!;)
Potete spedirci i vostri racconti qui: LINK
Per leggere il racconto, clicca su CONTINUA A LEGGERE.
Un secondo, una vita di Marco Bertoli
Il
sergente di fanteria di linea Gustave Monet osservò affascinato gli efficienti artiglieri
inglesi pulire dapprima la canna del cannone, poi ricaricarlo in tutta calma. Imperturbabile,
ostentando l’apparente indifferenza del veterano, vide il capo-pezzo nemico controllare
il puntamento dell’arma, quindi sberciare un comando che si perse nel fragore
della battaglia. Una nuvola di fumo grigiastro eruttò dalla bocca della canna
di bronzo e a Gustave parve di scorgere una piccola e solida macchia nera
schizzare fuori da quell’impalpabile nebbia vorticante, puntando diretta contro
il bersaglio: lui. Comprese che gli restava ancora un secondo da vivere prima
che la palla di ferro, pesante più di cinque chili, gli attraversasse il petto,
consegnandolo alla Storia della Grande Armèe. Le responsabilità del grado, l’obbligo
di mantenere l’ordine e la disciplina tra i ranghi e, soprattutto, il senso
dell’onore gli imposero di rimanere rigido e immobile sul posto. In
quell’attimo, cristallizzato in una dimensione infinita, sentì il fante Auguste
Mercier, ritto alla sua destra a stretto contatto di spalla, rabbrividire.
E’ opinione comunemente accettata che nella consapevolezza
del morire ripassi davanti agli occhi tutta la vita trascorsa, o quantomeno gli
episodi che si ritengono salienti nel bene o nel male: il sergente era sempre
stato uno spirito pragmatico e si limitò a concentrarsi su un unico ricordo, un’altra
macchiolina scura che gli aveva cambiato l’esistenza, assaporandolo come si
gusta felici l’attimo in cui i denti affondano nella polpa succosa della prima
ciliegia di Fiorile…
***
A quell’epoca, pareva un secolo ma, in effetti, erano passati
meno di due lustri, indossava ancora la semplice uniforme di fantaccino: un baldo,
alto, allampanato, moro e baffuto ventisettenne che aveva però già partecipato
a tutte le campagne di guerra che l’Imperatore si era compiaciuto di combattere
per l’Europa, e oltre, in nome della Trinità degli ideali rivoluzionari. In
licenza, la prima da tempo immemorabile, Gustave stava trascinando i piedi
stanchi lungo la stretta strada sterrata che da lì a tre giorni lo avrebbe
ricondotto sulla soglia di casa, quando il primo pomeriggio di un torrido Messidoro
lo aveva colto davanti a un ponte a schiena d’asino, che scavalcava con un arco
ardito un corso d’acqua quasi secco, posto all’ingresso di un paesello
dall’assurdo nome di ‘Carrefour de la bonheur’.
“Felicità?” commentò mentalmente. Una spontanea smorfia di
disgusto distorse i lineamenti impolverati e un poderoso sputo, che sapeva di
terra arida, espresse la sua opinione al riguardo. Sventolando la feluca stazzonata
per concedersi po’ di refrigerio, si fermò all’ombra di una quercia, azzittendo
il canto di una cicala. Per l’ennesima volta si domandò che senso avesse quel
suo ritorno a La Rochelle, se non rianimare fantasmi che forse era meglio riposassero
in pace nelle loro tombe. I genitori defunti, i fratelli sparsi chissà dove e
la sorella… beh, di sicuro non l’avrebbe accolto correndogli incontro a braccia
aperte. “Meglio rinunciare” si ammonì. “Ormai la mia famiglia sono i
commilitoni: inutile cercare un nido che non esiste più”.
Una dolorosa torsione alla bocca dello stomaco lo costrinse a
essere sincero con se stesso, ammettendo il vero motivo celato dietro quel
tormento interiore: ormai Francine apparteneva a Louis, il figlio del notaio. La
bambina bruna che era stata il suo primo amore, la ragazza flessuosa che aveva esplorato
con lui le ignote lande della sessualità, la donna vibrante che, al momento
della sua partenza per il reggimento, aveva promesso tra lacrime e baci
d’aspettarlo per sempre, adesso si rotolava soddisfatta nel morbido e lussuoso
letto di un altro uomo. Tanto valeva farsene una ragione.
Incerto se proseguire o riprendere la via per la caserma, Gustave,
come d’abitudine nei momenti che precedevano una decisione importante, estrasse
fuori dalla bisaccia l’involto che conteneva la malridotta pipa di gesso, bottino
di guerra e compagna lei sì fedele, anch’essa sopravissuta a tanti conflitti. Riempì
meccanicamente il fornello con una presa di tabacco dozzinale e, accesala, iniziò
a fumare, perso nei suoi pensieri, la schiena appoggiata alla ruvida corteccia
dell’albero e lo sguardo vuoto a vagare sullo striminzito fiumiciattolo che fluiva
a fatica sotto di lui. La cicala, tranquillizzata, riprese a frinire. Era,
però, destino che il suo gorgheggio dovesse subire una nuova interruzione.
«Che fai, bel soldatino? Ammiri le bellezze del paesaggio?».
Una voce dal timbro puro come la neve che ricopre le cime delle Alpi e caldo come
le sabbie che cingono le piramidi d’Egitto, l’inflessione gradevole degli
squilli della ritirata nemica, la tessitura pervasa da un leggiadro filo
d’ironia, riscosse Gustave da riflessioni più funeree del nuvolone cupo che,
con un brontolio minaccioso, aveva cominciato a invadere ampi spazi di cielo
azzurro. Si voltò di scatto e, pur in tempi di supremazia della Ragione, fu un
miracolo se la pipetta non cadde al suolo, ma riuscì a rimanere in bilico a un angolo
della bocca, spalancata per la sorpresa.
Una ragazza all’incirca ventenne, le braccia tornite strette
attorno a una cesta di vimini colma di lenzuola bagnate, lo stava squadrando
con un’espressione allegra e sbarazzina mentre risaliva con agilità lo
stradello che s’inerpicava lungo la ripida sponda del corso d’acqua.
A colpire Gustave, calamitandone l’attenzione, non furono né
gli occhi arguti ed espressivi, il verde intenso dell’erba fresca di primavera,
né i lunghi capelli colorati come il grano maturo, un covone di riccioli a
malapena trattenuti da un foulard cremisi, né la punta impertinente del nasino delizioso
e neppure il fisico slanciato, le cui forme il dimesso vestito non riusciva
comunque a svilire, quanto piuttosto il piccolo neo che spiccava sulla pelle
lievemente abbronzata del seno sinistro, appena esposto, come il gemello, da
una pudica scollatura.
La pecca che non rovina l’opera d’arte, ma anzi valorizza ed
esalta lo splendore e l’armonica perfezione di tutto l’insieme, perché, privandoli
dell’aura di astratta e algida sacralità di cui si ammantano alteri, li rende concreti,
vitali e palpitanti.
«Non mi riferivo alle mie, di bellezze!» puntualizzò garbata
la giovane nel raggiungere veloce la sommità della riva a un paio di passi dal
suo basito e muto interlocutore. Uno scintillio di dolce canzonatura nello
sguardo e il frullo di una sommessa risatina addolcirono il bonario rimprovero,
espressione di un lusingato e femminile apprezzamento per l’effetto ottenuto su
un giovanotto dall’aspetto nel complesso attraente.
«Scusa, cittadina, non intendevo per nulla mancarti di
rispetto» si affrettò a porgere ammenda Gustave. Si ricompose, assumendo un
atteggiamento più rispettoso e picchiettando con gesti nervosi la pipa contro
il tronco per spegnerla. Recuperata presenza e buone maniere, proseguì con il
giusto tono di formalità: «Permetti che mi presenti: Gustave Monet, dei Monet
di La Rochelle-sur-le-canal».
«Charlotte Cordiè… E basta». Un accenno di riverenza
accompagnò l’altrettanto educata, compunta e concisa risposta.
«Abiti qui?» chiese Gustave, dandosi tra sé impietosamente dello
stupido per la banalità della domanda che implicava un’ovvia risposta.
«Sì, laggiù, oltre quel casolare tra i pioppi». Un movimento
della fronte e lo svolazzo di un ricciolo sfuggito alla costrizione del fazzoletto
indicarono un punto indistinto alla sinistra della ragazza che, incamminandosi
in quella direzione, aggiunse: «Devo andare, ora. Mi aspettano». Un’impalpabile,
e tuttavia chiaramente presente, sfumatura di rassegnata delusione sfumò il semplice
commiato.
«Un attimo! Come hai capito che sono un militare?» chiese di
getto il giovanotto, in un disperato tentativo di dialogo per non permetterle
di allontanarsi. Quanto tempo che non scambiava due parole con una donna che
non fosse una procace prostituta o la scafata cameriera di una bettola! Nel
primo caso, duetti iniziati da una rapida contrattazione e conclusi da una
sfilza di mugolii animaleschi e simulate espressioni di piacere, nel secondo,
conversazioni ridotte a scambi salaci di battute oscene, inframmezzate da rutti
cavernosi e sonore pacche sul sedere.
«Oh, è stato facile. Indossi gli abiti civili come fossero
una divisa, tieni le spalle dritte sull’attenti, ostenti un atroce taglio di
capelli, fumi una pipa con lo stemma inglese, divori con gli occhi le mie tette
come un lupo solitario» spiegò sicura Charlotte, fermandosi, le labbra incurvate
in un sorriso di malizioso trionfo che trafisse Gustave meglio dell’acciaio di
una baionetta prussiana. Una breve pausa in cui aggrottò la fronte come in
preda a un turbamento interiore, quindi sospirò: «E poi…».
«Cosa?» incalzò il soldato, stupito per l’acutezza
dell’analisi cui era stato sottoposto in un attimo da una totale sconosciuta e
più che mai curioso, perché ora aveva scorto un subitaneo, e soprattutto inaspettato,
velo di tristezza piombare su quei cristallini specchi di smeraldo in cui si
rifletteva la sua immagine.
La ragazza chinò lievemente il capo verso destra, inarcando con
la movenza di una tortora il collo sottile, poi scandì seria: «Ti danzano negli
occhi gli spettri di chi troppe volte ha fissato la morte in faccia e sorretto
tra le braccia amici sussultanti negli spasmi dell’agonia».
Gustave traballò sulle gambe al sentire quella rivelazione.
Un tremito lo scosse. Il volto assunse la maschera tragica e attonita di chi ha
incontrato uno spirito capace di leggergli dentro, tanto compassionevole da
comprendere le sue angosce e di scoprire la ferita aperta e putrida che gli intossicava
l’anima. Che possedesse anche il potere di sanarla?
La corazza che lo proteggeva si frantumò. Una miriade di
schegge roventi gli solcarono i nervi, strinandolo.
Udì la franca risata di Maurice, morto di peste all’ombra
delle mura di Acri. Le interminabili dissertazioni politiche di Jean-Jacques,
ucciso da una pallottola austriaca in mezzo ai papaveri di un prato a Marengo. La
tosse stizzita e continua di Bruno, segato in due dalla mitraglia russa su un pendio
ghiacciato di Austerlitz. Più penosa di tutte, riascoltò la voce arida, priva
di emozione nel profferire la micidiale sentenza, di Francine incisa nelle parole
che annunciavano che quella era l’ultima lettera che gli avrebbe scritto,
perché stava per convolare a nozze con Louis.
Con un grido strozzato crollò in ginocchio, le spalle scosse
dai violenti singulti di un pianto liberatorio, l’anima finalmente in fuga da lande
desolate. Non si accorse che Charlotte si era accovacciata al suo fianco, e andava
cullandolo come un bambino impaurito, se non quando lo scoppio fragoroso di un
tuono sopra la quercia lo riportò al presente.
«Scusami» balbettò imbarazzato per il crollo emotivo,
sciogliendosi con delicatezza dalla confortevole stretta, «non so cosa mi sia
preso».
«Conosco bene la pena che ti strazia» lo consolò la giovane,
testa china, allungando il braccio per carezzargli la guancia ispida e umida di
lacrime con la timidezza di un palmo reso ruvido dai lavori quotidiani.
La nitidezza della comprensione avvolse Gustave: la creatura
accanto a lui possedeva la chiave del suo intimo perché in essa batteva un
cuore schiacciato a sua volta da una montagna.
«Com’è successo?» le domandò cauto, sollevandole con
delicatezza il mento con la mano per tuffarsi senza esitazione nelle pozze oscure
in cui si erano mutati quegli occhi incantevoli.
“Devo fidarmi di questo straniero?” fu l’interrogativo affranto
che saettò da un estremo all’altro della mente di Charlotte. Razionalità e
sentimenti si affrontarono in un titanico duello della durata di un respiro: le
truppe della ragione subirono una completa disfatta.
«Avevo quindici anni. La mamma aveva incaricato me e Angeline,
la mia sorellina di sei, di riportare una veste rammendata alla vecchia signora
che abitava poco distante da casa nostra. In paese correva voce che fosse
un’aristocratica di Parigi, una nobile riuscita a sfuggire alla ghigliottina e
trasferitasi qui, nella remota provincia, in cerca di rifugio e salvezza. Si
favoleggiava pure che nascondesse da qualche parte un piccolo tesoro in
gioielli, ma a nessuno dei contadini e degli artigiani del circondario queste
fole importavano un granché.
Giunte che fummo, trovammo la porta d’ingresso spalancata.
All’interno, l’intera abitazione era a soqquadro. Nella stanza da letto,
buttato in un canto, c’era quello che, a prima vista ci parve un informe fagotto
di stracci. Scorgemmo poi, con orrore, la faccia livida, gli occhi stravolti,
la lingua fuori dai denti: la poveretta era stata strangolata. Eravamo
impietrite per la paura e lo sgomento allorché un omone entrò in casa. Villoso
quanto un orso, un ghigno da belva feroce, puzzava di brigante. In pugno
reggeva una pistola gigantesca.
“Scappa!” gridai ad Angeline. Forse la piccola ci avrebbe
provato, ma non ne ebbe la possibilità: il bandito ruotò l’arma nella sua
direzione e premette il grilletto, con la medesima impassibile indifferenza di
chi si accinge a calpestare una formica. Nell’eco dello sparo mosse un passo
verso di me. Urlai sinché svenni.
Ripresi i sensi, mi ritrovai seminuda, un dolore atroce tra
le cosce, come mi avessero infilato nelle viscere un ramo infuocato. Mi trascinai
piangendo verso il corpo di mia sorella. La bimba era ancora viva. Per poco. La
mia unica consolazione è che nel momento in cui le si spense lo sguardo non era
sola».
Charlotte tacque, distogliendo lo sguardo. Si sottrasse con
garbo alla tenera presa delle dita callose di Gustave, le membra percorse da
ondate di brividi incessanti. Costui intuì che c’era dell’altro. Attese paziente,
chiedendosi se poteva spingersi a cingere con un braccio le spalle della
ragazza. Si fece forza e la strinse forte a sé.
Un gemito indefinibile, sofferenza o sollievo, accolse
l’inversione dei ruoli. Riprese: «L’assassino mi aveva ingravidato. Odiai
talmente il frutto mostruoso di quel seme abominevole che mi aveva avvelenata che
il travaglio fu lungo e il parto difficile: il bimbo nacque cadavere. Purtroppo
suo padre mi aveva rovinato ancor più nel profondo, marchiandomi a vita. La
levatrice prostrata m’informò che oltre all’innocenza della verginità il
miserabile si era preso pure la mia natura di madre: non avrei più potuto avere
figli.
Su quel letto di lenzuola insanguinate, maledissi Dio e desiderai
di essere morta anch’io come Angeline. Stuprata e sterile. Una vita di amara solitudine,
scandita dalla commiserazione pelosa delle comari e dagli additamenti pettegoli
dei braccianti: ecco il futuro che mi si prefigurava dinanzi. Altro che i sogni
di matrimonio che avevo nutrito nell’infanzia! Chi mai, infatti, avrebbe più voluto
prendere in moglie una donna inutile e di seconda mano?».
«Io, per esempio!» le rispose d’impeto Gustave, paonazzo in
viso per le emozioni turbolente che lo agitavano nell’intimo.
Charlotte sollevò di nuovo lo sguardo, nelle pupille ardevano
furiose le mille fiamme di una speranza troppo insperata per essere vera.
Gustave sostenne con coraggio le due lame che penetrarono dritte nel suo
spirito, affondando giù sino al punto in cui l’anima s’innesta nel midollo
osseo per saggiare la sincerità della sconsiderata affermazione.
«Non stai mentendo» fu il commento incredulo di una voce ora
esile e tremula come la fiammella del lucignolo prossimo a spegnersi.
«No!». Il monosillabo esplose nitido, secco e deciso come
l’ordine di aprire il fuoco contro il nemico.
«Ma sei un soldato di passaggio… Non so nulla di te…» fu la debole
protesta avanzata dall’ultimo anelito di ragionevolezza presente in una creatura
dalle grandi ali che vedeva con gioia spalancarsi le porte della gabbia in cui
era stato rinchiusa dalla malvagità altrui.
«Ho ancora dieci giorni di licenza prima di dover rientrare
al reggimento. Abbiamo tutto il tempo per conoscerci meglio e, soprattutto, per
sposarci» sentenziò pratico Gustave, più che mai risoluto a non buttare via l’opportunità
di ridare un significato alle loro esistenze. «Non mi dirai che al ‘Carrefour
de la bonheur’ non avete neppure il sindaco!» ammiccò con un largo sorriso,
rivolto al piccolo neo che contraccambiò sussultando sul seno ansimante della
ragazza.
Charlotte non ribatté. Talvolta la felicità è così enorme
che non si può fare altro che goderla senza pronunciare la benché minima
parola. Si rilassò, arrendendosi beata a quel soldato dai capelli orribilmente
scalati. Gli offrì le labbra e tutta se stessa. Fu un bacio oltremodo pudico,
un casto sfiorarsi di labbra impacciate che tuttavia unì indissolubilmente due
anime da troppo tempo affrante.
Uno scroscio violento inzuppò la coppia novella, nonostante il
riparo offerto dalla chioma fronzuta della quercia, battezzando in un lavacro
di purificazione la nascita del loro amore. Restarono abbracciati, occhi a bere
dagli occhi, lasciando che i corpi comunicassero nel loro silenzioso, e
tuttavia universale, linguaggio, fino a che il temporale esaurì la sua furia e
si allontanò brontolando. Fradici di pioggia e ubriachi di contentezza, camminando
composti, fianco a fianco ma intimamente congiunti, si diressero verso la casa
di Charlotte.
Sulla riva opposta del corso d’acqua, da una folta e
crepitante macchia di giunchi, emerse la figura magra e sgocciolante di un pallido
ragazzo adolescente, la canna da pesca in pugno. Auguste Mercier era stato il testimone
involontario dello sbocciare inatteso del sentimento tra Gustave e Charlotte.
Animo sensibile e romantico, in una campagna dove invece contavano
la forza bruta delle braccia e la resistenza alla fatica di un bue, aveva assistito
alla scena con il trasporto emotivo del poeta e la gratitudine del naufrago che
avvista una vela all’orizzonte. Il cuore gli saltellava in gola, delirante, al
ritmo d’impeti simili alle passioni cantate nelle rime d’amore del libro che custodiva
gelosamente sotto a un mattone della stanzetta che condivideva con altri tre
fratelli, stolidi campagnoli contenti di un placido e ottuso destino da
contadini.
Il sedicenne non ebbe bisogno di una prolungata
introspezione per capire d’essere caduto preda dei soavi e tenaci lacci
dell’amore. Un amore impossibile e senza speranza, certo, ma non per questi
motivi razionali meno travolgente e gradito al suo spirito.
In piedi sulla riva, immerso nella luce, si godè i raggi del
sole, ancora più caldi dopo la tempesta: insieme alla pioggia evaporarono anche
le invisibili catene che l’avevano avvinto a quel mondo che non gli
apparteneva.
Seppe cosa doveva fare.
***
Quanto dura un secondo? Non più a lungo del tempo di un
ricordo.
Il colpo giunse, implacabile e brutale, troncando l’ultimo
respiro di Gustave, ma non nel costato, dove lo stava aspettando, bensì sul
fianco e lo gettò a terra. La palla di cannone, sibilando sulla testa del
sergente in una scia tumultuosa di aria arroventata, falciò Auguste Mercier e gli
anonimi soldati allineati dietro al sottufficiale, per poi perdersi in
lontananza alla ricerca di altre vittime.
Gustave Monet sopravvisse a quella domenica, 18 giugno 1815.
Anni dopo, i capelli ben tagliati ma grigi, sotto il regno
di un altro Imperatore, che non valeva un mignolo del precedente, Gustave,
seduto al tramonto su una sedia di fronte all’aia, assaporando una buona fumata
di pipa, in placida attesa che una tuttora pimpante Charlotte lo chiamasse per consumare
la cena, continuava a domandarsi se avesse effettivamente sentito il soldato
Auguste gridare “No, Amore mio!” o fosse stato soltanto il frutto della sua
immaginazione.
Quanto è lungo un secondo? E quanto un'ora? In un attimo una vita, in un lampo si decidono esistenze anonime o i destini degli imperi. Le vite di Gustave , Auguste e Charlotte vengono decise in quel polveroso giorno di Messidoro e nel momento in cui sorella Morte esige un tributo.
RispondiEliminaAmo la scrittura di Marco Bertoli, ho amato "la signora che vedeva i morti" e questo piccolo gioiello e' per me solo la conferma di un talento infinito.
Ciao
Lucilla
ho già letto racconti scritti da Marco Bertoli, alcuni o vincitori di premi o scelti per essere pubblicati in collane, e sempre più mi convinco di essere di fronte ad uno scrittore che sa concretizzare con sicurezza di linguaggio e ricercatezza storica attimi di vita ed emozioni che travolgono i protagonisti.
RispondiEliminaMa, dopo aver letto il suo primo romanzo "La Signora che vedeva i morti", non potevo che dare un giudizio eccellente
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